i barboni n. 5

storia di VINCENZO "o bersagliere"

Vincenzo non era un barbone della stazione ma stava in uno dei quartieri periferici della nostra città. Si chiamava "o bersagliere" perché aveva fatto il soldato come bersagliere e lui era fiero di questo soprannome.
Un pezzo d'uomo, sposato con tre figlie femmine e un maschio, lavorava in un cantiere edile come mastro, era molto in gamba ed era contento di quello che faceva.

 

Un giorno torna a casa e trova la moglie a letto con un altro. La sua reazione fu quella di andarsene di casa, e cominciò a dormire per la strada. Trovò una macchina abbandonata e quella divenne la sua casa; nel frattempo incominciò a bere.
Un giorno si fece male al piede e seguì una infezione che gli procurò una cancrena a causa della circolazione compromessa dall'alcool. Gli amputarono la gamba destra ma lui continuò a vivere allo stesso modo: si aiutava con una stampella di legno.

Dopo qualche anno si ripresentò lo stesso problema alla gamba sinistra. Era diventato alcoolista e la circolazione andò a farsi benedire. Gli amputarono anche l'altra gamba: il bersagliere era ridotto sulla sedia a rotelle senza le due gambe. Dall'ospedale fu mandato per la convalescenza dalle suore di Madre Teresa in Via Tribunali. Ci sarebbe potuto restare per molto tempo ma un giorno litigò con le suore ed andò via. Ritornò nel suo quartiere dove era sempre vissuto e dove c'erano anche le sue figlie alle quali a modo suo voleva bene ma che, di fatto, lo ignoravano. La sua situazione certe volte mi sembrava irreale: un barbone senza le gambe che in carrozzella girava per il quartiere.

  Vincenzo viveva della carità della gente che conosceva. Tutti i sabati mattina andavo a prenderlo con la macchina, mettevamo la carrozzina nel portabagagli e lo accompagnavo in un istituto di suore a lavarsi e a cambiarsi.
Il sabato in questo istituto c'era la possibilità di farsi la doccia e di avere indumenti puliti. Era un momento che lui aspettava non solo perché riusciva a ripulirsi - e lui ci teneva - ma anche perché era un'occasione per poter parlare, lamentarsi, sfogare con qualcuno i propri malumori.

Certe volte pensavo che mi aspettava più per questo motivo che per la doccia. Lui viveva della carità delle persone e questo nella sua situazione era necessario, ma non sempre trovava qualcuno che si fermava ad ascoltare e a parlare con lui.
I suoi compleanni i suoi onomastici erano occasione di festa e gli ultimi due natali della sua vita li avevamo trascorsi insieme. Dopo cena passavo a prenderlo e veniva anche lui alla messa di mezzanotte con me. II suo dolore in queste festività era ancora più forte perché non riusciva ad accettare che i figli stessero a casa a festeggiare e lui doveva restare da solo per la strada.

  La situazione sembrò cambiare, quando gli arrivarono gli arretrati della pensione d'invalidità, qualche decina di milioni. Una delle figlie lo prese in casa e cominciò a prendersi cura di lui. Durò un mese e mezzo, finiti i soldi, finì anche la capacità di sopportazione della figlia e lui tornò per la strada.
Non voglio lanciare accuse contro nessuno perché effettivamente Vincenzo non era una persona facile: beveva, era handicappato, un po' prepotente, non era sicuramente facile avere un rapporto con lui. Erano evidenti le difficoltà con la famiglia.
Quello che penso è questo: spesso le difficoltà sono vissute non come problema da affrontare e risolvere, facendosi anche aiutare, ma invece come scusante per non fare una cosa. Voglio dire che non condanno l'incapacità di affrontare una situazione, perché nessuno di noi può giudicare, ma mi sconcerta l'isolamento affettivo, l'emarginazione umana e sociale, per cui una persona che perde i punti di riferimento ha difficoltà anche nello scambiare una parola con qualcuno.

Finiti i soldi dovette ritornare nella strada; la delusione fu fortissima, incominciò a bere ancora di più. II momento più difficile fu quando venne coinvolto da persone del quartiere che conosceva, in un traffico di droga. Per circa una settimana fece da corriere perché nelle sue condizioni non era sospetto, quindi poteva muoversi per il quartiere liberamente.
Mi raccontò che gli era stata fatta la proposta di collaborare, dietro un compenso di circa 50.000 lire al giorno, cifra enorme per una persona nelle sue condizioni. Questo è un aspetto molto triste della nostra realtà così piena di problemi, dove lavorare è un lusso e dove la malavita è pronta a cogliere le occasioni e approfittare del bisogno delle persone.

  Devo dire che in quell'occasione Vincenzo dimostrò un grande buon senso, comprese che era preferibile fare delle rinunce più che sporcarsi le mani con la morte di qualche giovane. Uno dei suoi generi era tossicodipendente e capì che per assurdo poteva essere lui ad alimentare le difficoltà della figlia: per questo mandò tutto all'aria e ritornò a vivere di elemosina rinunciando a quel guadagno facile.
La mia amicizia con lui fu di aiuto per le persone del quartiere: queste si resero conto che con lui era possibile avere un rapporto diverso. Cominciavano a vederlo con uno sguardo più comprensivo.
Vincenzo morì per cirrosi epatica, dopo circa un anno da quando era stato mandato via dalla figlia, mentre si trovava ricoverato all'ospedale S. Gennaro.