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la Bibbia
Antico Testamento
I Profeti Minori
 
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Introduzione
 

Il profeta Giona.

La Bibbia cristiana chiama abitualmente “minori” i libri profetici che raccolgono le parole di Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia.

Nella Bibbia ebraica essi sono un unico libro (o rotolo) che viene chiamato il “rotolo dei Dodici”. L’appellativo “minori” non diminuisce la loro importanza rispetto ai libri dei grandi profeti come Isaia, Geremia ed Ezechiele, semplicemente ne identifica la minore ampiezza. Addirittura Abdia consta di unico capitolo di 19 versetti.

I libri più lunghi sono Osea e Zaccaria. Gli scritti dei profeti occupano uno spazio temporale che va dall’ottavo al terzo secolo prima di Cristo. I più antichi sono Amos ed Osea, i più recenti Giona e Malachia. Proprio l’arco temporale dei loro scritti non permette di elaborare una teologia unitaria. Ci sono tuttavia alcuni temi che ci aiutano a capire le loro parole.

Il primo tema è quello dell’idolatria e della conoscenza di Dio. Il pericolo di non attenersi alla fede nel Signore, Dio di Israele, ma di passare facilmente a pratiche sincretiste era molto facile. La popolazione della terra di Canaan era rimasta mista; le guerre comportavano continui rimescolamenti di abitanti; i nuovi venuti non rinunciavano certo alle loro divinità né i conquistatori ai loro culti.
L’attrazione per le altre divinità doveva essere forte. Osea la descrive con efficacia nei primi tre capitoli che danno la chiave interpretativa della storia secondo il profeta: Israele non ha fatto altro che tradire l’amore del suo Dio. Le parole “prostituzione e adulterio” costellano non solo questi capitoli, ma anche il resto del libro.

Sono i Baal, cifra che indica le divinità più potenti di Canaan, coloro che determinano il ciclo della natura e della vita, di cui la Bibbia descrive la terribile lotta con il Dio di Israele (vedi 1 Re 18), gli “amanti”, a cui Israele, donna infedele, “va dietro”, venendo meno all’unico vero amore, che l’aveva fatto uscire dall’Egitto e gli aveva donato la terra. Osea e altri profeti mostrano che la fedeltà a Dio non è scontata, è una lotta. La profezia è una continua battaglia per affermare la fede nel Dio di Israele di fronte alla tentazione degli dèi delle nazioni, gli “altri dèi”. All’idolatria si contrappone la conoscenza di Dio, termine che esprime non tanto un rapporto intellettuale, quanto una relazione di amore: “Non c’e’ sincerità né amore del prossimo, né conoscenza di Dio nel paese” (4,1). La lontananza dall’amore del Signore porta alla morte: “Perisce il mio popolo per mancanza di conoscenza” (4,6). Osea concluderà l’oracolo del capitolo 6 con le parole: “…voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (vv. 1-6). Secondo Sofonia l’idolatria è strettamente legata al benessere e provoca ingiustizia.

Quest’ultimo tema è tra quelli dominanti la profezia, soprattutto prima dell’esilio a Babilonia. Sono soprattutto Amos, Michea, Sofonia e Abacuc coloro che fanno della giustizia sociale un aspetto essenziale del loro annuncio. L’attenzione a questo problema è la risposta a una situazione sociale di grave ingiustizia, che penalizzava soprattutto i poveri. I profeti si preoccuparono per prima cosa di denunciare situazioni di ingiustizia. Il libro di Amos è costruito tutto sul problema dell’ingiustizia e del suo rapporto con il culto. I profeti affermano unanimemente che esiste un diritto del povero che si deve rispettare e realizzare. In questo senso Amos dichiara il povero “giusto”, perchè egli sarà oggetto della giustizia divina, che gli renderà ciò che gli uomini non hanno voluto riconoscergli come diritto inalienabile.

Non siamo di fronte quindi a una semplice denuncia di una situazione sociale ingiusta né a un appello a una rivoluzione sociale, ma all’annuncio di uomini di fede, che mostrano quale è il giudizio divino e quindi l’esito della storia attraverso il suo intervento. Le parole profetiche sono molto chiare su questo tema. Dio non sopporta l’ingiustizia e non gradisce un culto che non sia accompagnato dalla pratica della giustizia. Amos esorta a cercare il Signore e il bene se si vuole vivere, a smettere di frequentare i santuari (Betel, Galgala, Bersabea), se il culto non è accompagnato dalla giustizia: “Cercate il bene e non il male, se volete vivere… Odiate il male e amate il bene e ristabilite nei tribunali il diritto” (5,14-15).

La parola dei profeti non è mai circoscritta al presente. Soprattutto l’annuncio salvifico rivolge lo sguardo verso il futuro e apre alla speranza, anche quando il giudizio sembra avere compromesso definitivamente la vita di Israele. Si comincia da Osea, che parla del rinnovato amore di Dio per il suo popolo: “Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore”.

L’amore di Dio rende possibile la fedeltà di Israele, che non avrà più bisogno di ricorrere agli idoli. Conseguenza sarà la fecondità della terra e il benessere. Gioele presenta un oracolo non poco significativo nel capitolo terzo: In un mondo segnato dalla guerra e dalle calamità naturali (invasione di cavallette) annuncia l’effusione dello spirito su tutti gli uomini, al di là della loro appartenenza sociale (schiavi e schiave), anagrafica (giovani e vecchi), sessuale (maschi e femmine). Lo spirito, la “ruh” della forza penetrante di Dio, concederà a tutti la possibilità di essere profeti, cioè di divenire messaggeri di Dio in un mondo diventato difficile.

Anche Michea ha due brani significativi: al capitolo quarto annuncia la fine della guerra e il pellegrinaggio a Sion dei popoli, mentre al capitolo quinto annuncia la venuta del messia, colui che salverà il suo popolo dal potere dei nemici e porterà la pace. Così Sofonia al capitolo terzo, che annuncia la nascita di un nuovo popolo “povero e umile”, il “resto” di Israele, di cui il Signore sarà re. Ancora diverse sono le preoccupazioni di Aggeo e del Proto-Zaccaria. Siamo nel periodo postesilico. Il tempio sta per essere ricostruito e il regno di Giuda è ridotto a un piccolo territorio senza indipendenza. Attorno alla figura di Zorobabele, il governatore presentato come l’eletto di Dio, il “germoglio” (Ag 2,23; Zc 3,8-10; 6,12), rinasce la prospettiva regale messianica per la prima volta legata a una figura storica precisa. In lui sono riposte le attese di quel piccolo resto, lui che ha reso possibile la ricostruzione del tempio (Zc 4,6-14).

Anche la seconda parte di Zaccaria non rinuncia, con il suo linguaggio che si muove tra profezia e apocalittica, ad aprire prospettive nuove per il futuro. Si va dall’annuncio messianico di 9,9 ss, alla promessa della raccolta dalla dispersione di 10,3ss, fino all’annuncio della salvezza definitiva di Gerusalemme al capitolo 12, dove è enigmatico il versetto 10: “Riverserò sopra la casa di Davide e gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a colui che hanno trafitto. Ne faranno lutto come si fa lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito…”.

L’evangelista Giovanni vi ha visto un riferimento alla morte di Cristo (Gv 19,37). In un contesto di guerra universale che si concentra in Gerusalemme, il profeta annuncia la sofferenza e la morte violenta di un uomo che attrae a sé gli sguardi. Forse i canti del servo del Terzo Isaia ci aiutano a capire il valore di questa profezia e motivano la rilettura fatta da Giovanni. Ma questa è solo la premessa alla grande battaglia escatologica, definitiva, in cui finalmente si instaurerà il regno di Dio (Zac 14).