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san Gennaro all'Olmo - Napoli
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Lettere di Paolo
 
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Introduzione

Le lettere e il carisma di Paolo

Paolo nasce a Tarso nella Cilicia, che corrisponde oggi alla parte sud est della Turchia, attorno all'anno 8. La città non è lontana da Antiochia di Siria, capitale della provincia romana della Siria-Palestina.

Tarso contava circa 200.000 abitanti, con una consistente comunità di ebrei che parlavano il greco. Le due lingue più parlate dagli ebrei al tempo di Paolo erano l'aramaico in Palestina e il greco, la lingua di comunicazione di quel tempo, nelle città fuori della Palestina, le città della diaspora. La famiglia di Paolo discendeva dalla tribù di Beniamino, una delle dodici tribù all'origine del popolo di Israele, e quindi proviene probabilmente dalla Palestina.

Paolo compie gli studi a Gerusalemme sotto la guida di Gamaliele; quindi conosce non solo l'Antico Testamento ma anche le interpretazioni rabbiniche della Bibbia. Per questo i metodi dell'esegesi rabbinica si ritrovano nelle sue lettere. Così quando Paolo parla di Gesù ne parla all'interno dell'Antico Testamento. Nella Lettera ai Galati, ad esempio, Paolo interpreta la tradizione di Abramo da cristiano, da discepolo di Gesù (cf. Gal 3). Alla scuola di Gamaliele Paolo conosce soprattutto la Torà, la legge, la prima parte dell'Antico Testa-mento (è il Pentateuco nella Bibbia cristiana). Nella tradizione ebraica la Legge era la parte più importante della Bibbia e fu considerata normativa prima degli altri libri biblici.

La prima lettera di Paolo è quella ai Tessalonicesi, scritta nell'anno 51. L'ultima è invece scritta ai Colossesi negli anni prima del martirio subito a Roma, quindi poco dopo il 60. Tutte le lettere sono scritte prima che siano redatti definitivamente i Vangeli. Sono i primi scritti del Nuovo Testamento. Si potrebbe dire che essi contengono il Vangelo nella sua origine, il cuore dell'annuncio evangelico. Emerge in modo molto chiaro che il carisma di Paolo è la comunicazione del Vangelo.

Lo dice molto bene nella prima Lettera ai Corinzi dove si evidenzia la coscienza di Paolo di essere l'apostolo del Vangelo: "Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il Vangelo"(1 Cor 1,27). L'apostolo realizza pienamente il mandato missionario conferito dal Signore agli apostoli prima dell'ascensione.

Paolo vive una vera passione per la comunicazione del Van-gelo, di cui ne sente l'urgenza. Essa è molto ben espressa in quel-la frase della prima Lettera ai Corinzi: "Guai a me se non predicassi il Vangelo" (1 Cor 9,16). Nei capitoli 10 e 11 della 2 Corinzi sente l'orgoglio di questa sua missione, che difende di fronte agli accusatori. La sua difesa è la difesa stessa del Vangelo e del suo annuncio. Paolo sostiene con vigore che il Vangelo è rivolto a tutti: ai giudei, ai pagani, ai deboli, ai forti, ai barbari, ai greci. Senza la sua comunicazione non esiste comunità.

Ogni comunità nasce dall'annuncio del Vangelo. E nasce come assemblea, come Chiesa, riunita appunto intorno alla proclamazione del Vangelo di Gesù Cristo morto e risorto. Sia dalle sue lettere che dagli Atti appare che Paolo dedica molto tempo alla predicazione nelle varie città dell'impero. comunicazione del Vangelo. Si è calcolato che nei suoi viaggi missionari abbia percorso circa 15.000 km per poter raggiungere tutti. E viaggiare era allora un'impresa notevole. Egli stesso ricorda le fatiche e le sofferenze subite durante i suoi numerosi viaggi (2 Cor 11,23-30).

L'apostolo insiste inoltre sulla gratuità della comunicazione del Vangelo, tanto da non voler dipendere da alcuno per questo. Tuttavia non vive questa passione evangelizzatrice da solo. Si circonda di collaboratori: Timoteo, Marco, Barnaba, Sila, sono solo alcuni dei sessanta nomi che troviamo citati esplicitamente nelle sue lettere. Tra loro ci sono anche venti no-mi di donne, alcune con una funzione importante nelle diverse comunità. Paolo dà dignità ai suoi collaboratori: quella che riceve chiunque predica il Vangelo.

Talvolta li chiama, come fa con Epafrodito, di Filippi, "compagni di lavoro e di lotta". Tutto è a servizio del Vangelo, tutto è un'opera del Vangelo. Per sottolineare questo comune impegno per l'evangelizzazione, Paolo chiama i suoi collaborati "sunergoi", ossia coloro che lavorano con lui, che faticano con lui. Per indicare tale lavoro comune usa la stessa parola per sé e per i suoi collaboratori: "kopos", che significa sforzo, fatica. Non c'è distinzione tra la fatica di Paolo e quella dei suoi collaboratori tanto che alcune lettere sono indirizzate alle varie comunità congiuntamente ad alcuni suoi collaboratori: ad esempio la 1 Corinzi è indirizzata da Paolo e Sostene; la 2 Corinzi da Paolo e Timoteo; la Lettera ai Filippesi e a Filemone da Paolo e Timoteo; la 1 e la 2 ai Tessalonicesi da Paolo, Silvano e Timoteo. Probabilmente l'apostolo li aveva coinvolti anche nella preparazione della lettera, magari parlandone e discutendone con loro.

Un tema particolarmente importante che emerge nelle lettere di Paolo è la sua preoccupazione per l'unità delle comunità. La Chiesa è sacramento di unità. L'immagine della prima Lettera ai Corinzi sulla comunità come "corpo" descrive con chiarezza la necessità di appartenere come gente diversa a una realtà comune, il cui "capo" è il Cristo (1 Cor 12). Non ci si può staccare da questo "corpo" fondato sulla parola del Van-gelo, altrimenti si perde la vita stessa e la funzione per cui si è stati costituiti. Corinto era la terza città dell'impero romano come numero di abitanti, dopo Roma e Alessandria. In essa abitavano molti veterani dell'esercito romano, ma anche schiavi liberati e una comunità ebraica piuttosto consistente. Vi si intrecciavano culture diverse.

Quando Paolo scrive che non ci sono più né giudei né greci, né schiavi né liberi (1 Cor 12,13), svolge un pensiero teologico a partire dalla realtà della situazione di quella città: la comunità era chiamata a formare un unico popolo di gente diversa. I nomi stessi che troviamo nelle due lettere ai Corinzi descrivono bene la composizione varia della comunità: Aquila, Priscilla e Crispo erano ebrei; Fortunato, Quarto e un certo Giusto erano romani; Stefano, Acaio ed Erasto erano greci; vi erano anche alcuni schiavi. Il problema della comunità di Corinto era formare e mantenere l'unità del corpo, la comunione tra membra diverse, tra etnie diverse, tra gente la più differente come origine sociale e cultura.

A Corinto, Paolo è molto preoccupato per l'unità non solo perché si trattava di persone di diversa provenienza, ma anche per il sorgere di partiti all'interno stesso della comunità. Paolo insiste sull'unità della Chiesa. Nella comunità vi erano anche persone ricche, aristocratiche, come risulta dai contrasti denunciati da Paolo rispetto alla partecipazione ai pasti comuni che precede-vano la cena del Signore (1 Cor 11,17-34). L'apostolo interviene perché la diversità di stato sociale non intacchi la fondamentale fraternità. Anche la colletta per la comunità di Gerusalemme era in funzione di una solidarietà tra le diverse comunità: tutte formavano l'unico Corpo di Cristo.

Infine si deve almeno accennare alla grande opera dell'apostolo che aprì con decisione le porte del Vangelo ai pagani. Non fu immediatamente chiaro il modo in cui i pagani avrebbero potuto far parte della Chiesa. Le difficoltà riguardavano la necessità di sottomettersi alla Legge ebraica. Al problema del rapporto tra Legge e Vangelo Paolo dedica molti capitoli delle lettere ai Romani e ai Galati. Si comprende la centralità di questo problema sia pensando alle origini e all'educazione dell'apostolo, sia ricordando che i primi discepoli di Gesù venivano tutti dall'ebraismo: per essi la Legge era il passaggio necessario e indispensabile dell'itinerario di fede. Paolo afferma a più riprese la libertà del Vangelo dalla Legge.

Questo per l'apostolo è un altro fondamento della comunità. La Legge, afferma Paolo, ha avuto la funzione di condurci a Cristo. E stata come il pedagogo, ossia colui che insegna a leggere, a scrivere, a capire (Gal 3,23-27). Ma la fede in Cristo ci rende liberi dal vivere secondo la Legge. Ciò vale anche per le leggi dei pagani. Infatti l'apostolo è consapevole che anche i pagani hanno le loro leggi, il loro modo di vivere, le loro convinzioni, di cui possono diventare schiavi al pari dei giudei (Rm 1,18-32). Tutti, giudei e pagani, a causa delle leggi, sono posti sotto il giudizio di Dio per la loro trasgressione (Rm 1,6-3,20). Il Vangelo della morte e resurrezione di Cristo libera tutti coloro che l'accolgono dalla schiavitù della Legge e delle leggi.

E la libertà del Vangelo che Paolo vive in maniera del tutto singolare. Il Vangelo non può essere imprigionato da nessuna cultura, le fermenta tutte rendendole nuove. Si comprende allora il discorso che Paolo fa sulla "giustificazione": essa non viene dalla Legge, ma dalla fede nel Signore, dall'accogliere il Vangelo. La giustificazione è la nuova situazione del cristiano, che in Cristo viene dichiarato giusto da Dio, che libera dal peccato l'uomo accogliendolo nella sua comunione. È il Vangelo di Gesù Cristo che giustifica, non la Legge.

È il Vangelo di Gesù Cristo che mette in comunione con Dio. Per questo, nella teologia di Paolo, il discorso della giustificazione ha un ruolo centrale. In un certo senso esso è strettamente legato al suo carisma, la passione per il Vangelo.